Funghi in tardo autunno: dove trovarli (quando tutti pensano sia troppo tardi)

Boletus aereus in lecceta, fungo porcino
Boletus aereus, porcino nero, bronzino; protagonista "tirrenico" del tardo autunno.
Quando le giornate si accorciano e il bosco si tinge di rame, molti credono che la stagione dei funghi sia ormai finita. In realtà, il tardo autunno è un tempo di passaggio che regala ancora fruttificazioni sorprendenti, spesso più silenziose e localizzate, ma non meno intense. È la fase in cui la natura si ritira, ma non si spegne: le foglie che cadono trattengono l’umidità, il suolo resta tiepido dopo settimane di piogge, e il micelio continua a lavorare sottoterra, approfittando degli ultimi equilibri termici prima dell’inverno.

Ogni anno, quando le Alpi si preparano al silenzio e le prime brinate spengono i boschi appenninici, il Sud e le isole vivono invece un risveglio. È il paradosso del Mediterraneo autunnale: mentre il Nord entra nella quiete, il micelio del Meridione torna a respirare. Dopo mesi di arsura e suoli polverosi, le piogge di ottobre e novembre scendono su terreni ancora tiepidi, e quel calore residuo agisce come una scintilla. L’umidità si accumula lentamente nei primi strati, penetrando fino al micelio dormiente, e in pochi giorni i boschi di leccio, le sugherete e le pinete costiere si popolano di sporofori. Per la macchia mediterranea, questo è un vero secondo inizio: leccio (Quercus ilex), sughera (Quercus suber), pino domestico e corbezzolo creano un mosaico di microhabitat che reagiscono in modo rapido e spettacolare alle prime piogge autunnali. È in questi ambienti che si trovano i porcini più tardivi, con soprattutto la presenza di Boletus aereus, il più elegante e termofilo del gruppo. Quest’ultimo predilige terreni silicei o leggermente acidi, ben drenati, e si fa trovare sia nelle zone costiere, sia nelle colline interne della Campania, della Calabria, della Sicilia e della Sardegna, dove le giornate restano miti e le notti non ancora fredde. Si spinge anche lungo le fasce costiere tirreniche di Lazio e Toscana meridionale, fino ai lembi di Maremma, regalando raccolte tardive e inattese quando altrove regna già il gelo.

Boletus aereus in bosco misto di leccio e sughera; Toscana, ottobre; litorale tirrenico.
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In genere, la differenza climatica fra Tirreno e Adriatico è decisiva: le coste occidentali beneficiano dell’effetto mitigatore del mare e delle brezze umide che mantengono costante la temperatura del suolo, mentre sul versante adriatico i venti orientali portano spesso aria fredda e asciutta che blocca rapidamente le fruttificazioni fungine.

In Sardegna e Sicilia, dove l’autunno assomiglia a una lunga estate rovesciata, la biodiversità fungina raggiunge uno dei momenti più ricchi dell’anno. Il calore residuo del suolo e le piogge ben distribuite creano una stagione micologica viva e imprevedibile, capace di alternare specie tipiche dei boschi umidi a quelle dei pascoli aridi o dei margini assolati. Nelle sugherete e nelle leccete si trovano i protagonisti più attesi: i porcini autunnali, soprattutto Boletus aereus che qui

maturano con un ritardo di settimane rispetto al Centro-Nord, e l'ovolo buono o Amanita caesarea; saranno poi seguiti dai classici funghi della lecceta, i Leccinellum lepidum, protagonisti delle giornate più prossime all'inverno. Accanto ai porcini, i sanguinelli (Lactarius sanguifluus, L. vinosus, L. deliciosus) tingono di arancio e rosso i margini delle pinete e delle radure sabbiose. Nei tratti più freschi dei boschi di querce si affacciano Hygrophorus russula, con le sue lamelle cerose color vino, insieme a numerose specie di interesse micologico o naturalistico. Sui margini dei pascoli, invece, dove il terreno è sassoso e povero, in presenza degli steli marcescenti di Eryngium e Ferula, appare uno dei funghi più affascinanti e adattabili del Sud: il cardoncello (Pleurotus eryngii), con la sua forma tipica delle ferle, nota come "fungo di ferla, Pleurotus eryngii var.ferulae. In Puglia, Basilicata, Sardegna, Sicilia e in alcune aree del lazio rappresenta una vera tradizione gastronomica: emerge dopo le piogge di novembre, quando le notti si fanno umide ma non ancora fredde, e resiste anche a lievi cali termici grazie alla sua struttura compatta. È il simbolo dei pascoli autunnali, dove la vita micologica si sposta dai boschi agli spazi aperti.

Pleurotus eryngii v.eryngii, il cardoncello tipico, in una prateria con presenza di Eryngium sp.

Nei prati assolati e lungo i bordi dei sentieri tornano anche le mazze da tamburo (Macrolepiota procera e affini), spesso alte e slanciate, che sfruttano la persistenza di umidità nel terreno profondo e le ultime giornate calde. In certe annate possono comparire fino a dicembre, soprattutto nelle zone collinari interne o vicino al mare, dove il suolo non gela mai (a patto che il vento sia clemente!) Nelle pinete costiere, dominate da pino marittimo e pino d’Aleppo, la vita micologica prosegue fino a fine anno. Il substrato sabbioso e ben drenato favorisce specie resistenti come Tricholoma terreum, mentre nei tratti più freschi e riparati si incontrano ancora Suillus granulatus e S. bellinii, e le finferle, Craterellus lutescens disegnano tappeti dorati tra i muschi e gli aghi caduti a terra.

Le Alpi e l'attesa della neve

Sulle Alpi, il tardo autunno è un tempo sospeso, in cui il bosco trattiene il respiro prima dell’inverno. Le grandi buttate di porcini, Boletus edulis, e funghi più noti si sono ormai concluse quasi ovunque, ma nelle fasce inferiori, sotto i 1.000 metri, il suolo conserva ancora una certa vitalità. È in questi ambienti, sui versanti esposti a sud o nei valloni che raccolgono il tepore residuo del giorno, che possono comparire gli ultimi sporofori tardivi, spesso isolati ma perfettamente sviluppati. In alcune annate particolarmente miti, si rinvengono ancora esemplari di Boletus pinophilus, che riescono a fruttificare anche eccezionalmente tardi grazie a un fenomeno fisico chiamato inerzia termica del suolo. Il terreno, infatti, agisce come un serbatoio di calore: accumula energia solare durante i mesi estivi e la rilascia lentamente nei periodi più freddi. Anche quando l’aria notturna scende sotto zero, pochi centimetri sotto la superficie la temperatura può restare stabilmente sopra gli 8°C, valori sufficienti a mantenere attivo il micelio. Questa inerzia termica consente dunque brevi prolungamenti stagionali, soprattutto nei boschi fitti dove l’humus e lo strato fogliare trattengono l’umidità e isolano il suolo dal gelo. Ma basta una prima nevicata persistente per cambiare tutto. Non è tanto la neve in sé a “uccidere” i funghi, quanto l’effetto combinato di temperatura e copertura. Quando il suolo è ancora caldo, una coltre di neve di pochi centimetri può persino agire da isolante, mantenendo al di sotto un microclima relativamente stabile. Tuttavia, se il gelo si prolunga o se la neve fonde e ricongela ripetutamente, la temperatura del terreno cala bruscamente: il micelio entra in quiescenza, le fruttificazioni si arrestano e i funghi già formati subiscono rapide alterazioni cellulari. Il bosco entra allora nella sua fase di silenzio: i colori si spengono, la linfa si ritira, e solo gli organismi più adattabili continuano a emergere tra le foglie o ai margini dei ceppi. È in questo paesaggio più quieto che si affermano i protagonisti del tardo autunno alpino. Craterellus tubaeformis, la finferla grigia, colonizza con discrezione le abetaie, spesso in fitti raggruppamenti che costellano i pendii umidi.

Craterellus tubaeformis, la "finferla grigia", specie diffusa nelle abetaie alpine in ottobre.

La sua resistenza al freddo e la capacità di fruttificare anche con escursioni termiche marcate ne fanno una delle ultime specie simboliche dell’anno micologico in territorio alpino. Accanto a lei, nei punti più riparati dove il sole filtra obliquo tra i rami, si possono ancora trovare Hydnum repandum o steccherino dorato, Tricholoma portentosum, dal profumo di farina fresca, e specie d'interesse micologico, come il tardivo Hygrophorus hypothejus, il “fungo della prima neve”, perché riesce a spuntare quando il suolo è già chiazzato di bianco. Sono le ultime voci del bosco prima del silenzio invernale: organismi che vivono al limite, sfruttando ogni grado residuo di calore e ogni stilla d’acqua disponibile. Dopo di loro, sarà il tempo dei licheni, dei miceli dormienti e delle promesse affidate alla primavera.

Le foreste appenniniche

Nell’Appennino, il micelio conosce un autunno più indulgente e dilatato, dove la stagione non si chiude mai di colpo ma sfuma lentamente verso l’inverno, con il meraviglioso fenomeno del foliage. Le temperature restano miti più a lungo, soprattutto nei versanti tirrenici, dove il mare modera gli sbalzi termici e l’aria umida rallenta l’essiccamento del suolo. È un contesto che prolunga la vita dei funghi simbionti e offre condizioni ideali anche a molte specie saprotrofe, che traggono nutrimento dal progressivo accumulo di foglie e materia organica in decomposizione. Nei boschi di faggio e castagno, là dove la luce si attenua e le foglie formano un fitto tappeto isolante, continuano a fruttificare Craterellus cornucopioides, le celebri trombette dei morti, spesso in cerchi densi che costellano i pendii più umidi. Fra i sentieri e le radure ai margini del bosco si può invece incontrare Infundibulicybe geotropa, riconoscibile per il cappello imbutiforme e il portamento fiero: forma spesso file o cerchi perfetti, segno di un micelio maturo e in piena attività. Ma non mancano i porcini tardivi, che in certe annate si spingono ben oltre la metà di novembre. È raro trovare ancora Boletus edulis in alta quota, ma nei castagneti e nei querceti inferiori, soprattutto nei versanti assolati, possono comparire ancora esemplari di Boletus pinophilus e, talvolta, persino B. reticulatus. Questi ultimi beneficiano delle ore centrali più calde e della protezione termica del fogliame, che conserva l’umidità notturna.

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In Appennino, le faggete intermedie in zone assolate, tra 700 e 1200 metri, possono restare attive fino a inizio dicembre! Il tappeto di foglie trattiene l’umidità, protegge gli sporofori dal vento e impedisce al gelo di penetrare nel terreno, creando un microclima stabile.

In generale, le aree più riparate dal vento, esposte a sud o sud-ovest, rappresentano i siti più promettenti: lì il suolo trattiene il calore e il micelio continua la sua attività vegetativa anche quando le mattine si fanno fredde. Oltre ai simbionti, il tardo autunno appenninico regala la scena ai funghi saprotrofi, che traggono energia dalla decomposizione della lettiera. In questo periodo maturano Lepista nuda, dagli straordinari cromatismi violacei, la grigiastra (e controversa dal punto di vista della tossicità, per questo da non consumare) Clitocybe nebularis, con i suoi cerchi estesi e il tipico aspetto “fumoso”, e il celebre lardaiolo rosso o Hygrophorus russula, specie tardo-autunnale dal cappello vinoso e dalle lamelle cerose, che si lega a querce e castagni in ambienti più termofili. Nei pascoli e nelle praterie più alte, ormai spoglie di fiori ma ancora ricche di vita invisibile, si manifesta invece il piccolo miracolo delle Hygrocybe, specie dai colori straordinari, rossi, aranciati, gialli, che prosperano solo nei prati non concimati e a bassa pressione antropica, dove il suolo è povero ma vivo. È qui, in mezzo ai fili d’erba inumiditi dalle brume, che si possono osservare Hygrocybe punicea e Camarophyllus pratensis: due specie di un mondo discreto e fragile, oggi sempre più raro, ma capace di testimoniare quanto la salute del paesaggio dipenda anche dai funghi che lo abitano.

Camarophyllus pratensis, specie tardo autunnale protagonista nelle praterie appenniniche.
Camarophyllus pratensis, specie tardo autunnale protagonista nelle praterie appenniniche.

Le piogge di fine ottobre e inizio novembre rappresentano così un vero “capovolgimento stagionale”: mentre il Nord si chiude sotto il gelo e i miceli entrano in quiescenza, le regioni meridionali e insulari vivono il loro momento più fertile. È un effetto della dilatazione climatica, quel fenomeno che sposta progressivamente le finestre di fruttificazione in funzione della temperatura media e della latitudine. Il risultato è un’Italia a due velocità: silenziosa e cristallizzata al Nord, eccezion fatta per le zone più costiere o riparate, ancora viva e profumata di funghi al Sud.