Andar per Funghi in Autunno, dalle Alpi al mare

Quando l’estate si ritira e l’aria comincia a farsi tersa, con le prime piogge che battono il suolo assetato, per i cercatori di funghi comincia un tempo sospeso. È l’autunno: stagione per eccellenza della fruttificazione fungina, ma anche periodo di transizione, in cui il bosco va decifrato con attenzione. Niente è scontato, tutto va osservato: la disposizione delle foglie, il colore della chioma degli alberi, il tipo di sottobosco, l’umidità al tatto della lettiera. E poi le quote, le esposizioni, i cambiamenti improvvisi del cielo. L’autunno è, in fondo, l’arte della pazienza e della previsione. Ma non esiste un solo autunno. Ne esistono almeno quattro: quello delle Alpi, quello degli Appennini, quello delle colline e quello — più misterioso e imprevedibile — delle zone costiere. In ciascuno, le dinamiche micologiche cambiano radicalmente. E comprenderle significa non solo sapere dove andare, ma soprattutto quando e perché.
Autunno alpino: la corsa contro il tempo
Sulle Alpi, l’autunno è un rito breve ma intensissimo. Le temperature calano rapidamente, la luce si accorcia di colpo, e la finestra utile per la fruttificazione si riduce a poche settimane. Tuttavia, in questi intervalli stretti, il bosco può regalare fruttificazioni di grande imponenza. Non perché il micelio “si sia accumulato" in estate, come si sente dire spesso frettolosamente, ma perché si realizzano improvvisamente tutte le condizioni ideali per il completamento del ciclo di crescita. Nelle valli comprese tra i 1000 e i 1800 metri di quota, i boschi misti di faggio (Fagus sylvatica), abete rosso (Picea abies) e larice (Larix decidua) diventano il fulcro dell'attività micorrizica. Dopo le prime perturbazioni settembrine, se il clima resta stabile per alcuni giorni, con temperature medie comprese tra gli 8 e i 14 °C, notti fresche ma non gelide, e un’umidità ben distribuita nel suolo, molte specie simbionti riprendono rapidamente la fruttificazione. Le piogge autunnali più efficaci sono quelle che apportano tra i 10 e i 30 millimetri d’acqua in modo diffuso, seguite da giornate serene, asciutte e luminose, ma senza irraggiamento eccessivo. In questi boschi, protetti dal vento forte e ancora ricchi di lettiera in fase iniziale di decomposizione, le condizioni microclimatiche diventano ideali: l’aria resta ferma sotto chiome ancora compatte, e il suolo, ben ossigenato, trattiene umidità senza ristagni. È in queste precise circostanze che il sottobosco si anima di presenze micologiche: Boletus edulis, Boletus pinophilus, Hydnum repandum, Cantharellus cibarius, Tricholoma portentosum, Amanita muscaria e molte altre specie caratteristiche del climax alpino compaiono con progressioni improvvise, spesso in gruppi numerosi ma localizzati. Un trucco da "cercatore esperto" in boschi di latifoglie è quello di osservare le piante non ancora ingiallite, soprattutto i giovani faggi. Dove le foglie sono ancora verdi, significa che il microclima locale è più fresco, con fotosintesi attiva e radici ancora in “comunicazione” col micelio simbionte. In queste zone, la probabilità di fruttificazione micorrizica è più alta. Nelle zone alpine, il rischio più grande è il freddo improvviso. Un’unica gelata notturna sotto zero può bloccare la formazione e l'accrescimento degli sporofori. Le radure più esposte, i pendii ventilati, le zone prossime ai canaloni o alle forre con inversione termica sono da evitare. Anche l’eccesso di pioggia, se coincide con forti raffiche di vento, può distruggere la micromorfologia della lettiera e disperdere le spore. Per questo, chi conosce le Alpi cerca boschi “protetti”, non esposti a nord-ovest, con pendenze regolari, suoli ricchi di humus e accesso a falde superficiali. Ma vi è un altro fattore, meno visibile, che condiziona profondamente l'attività del micelio simbionte: la progressiva riduzione delle ore di luce. A latitudini alpine, con l’avanzare dell’autunno, la durata del giorno si accorcia rapidamente, e questo modifica il comportamento delle piante ospiti. Non appena il fotoperiodo scende sotto una soglia critica — che per molte latifoglie caducifoglie si colloca attorno alle 12 ore — si innescano segnali biochimici che portano a una riduzione della fotosintesi e al trasferimento delle riserve verso l’apparato radicale. Il faggio, per esempio, riduce gradualmente l'attività clorofilliana prima ancora di mostrare ingiallimenti vistosi, e con essa rallenta anche il flusso di carbonio utile alla nutrizione del micelio. La finestra di fruttificazione, dunque, non dipende solo da pioggia e temperatura, ma anche da questo delicato orologio interno: è quando le foglie sono ancora verdi, ma il giorno si è già accorciato, che la simbiosi si trova nella sua fase più attiva. È proprio in quel momento, fugace, instabile, spesso limitato a due o tre settimane, che le specie simbionti accelerano la produzione degli sporofori. Dopo, anche in condizioni climatiche apparentemente favorevoli, il processo tende ad arrestarsi: le radici smettono di scambiare nutrienti con il fungo, e il bosco scivola lentamente verso il riposo vegetativo.

Il complesso degli Appennini
Negli Appennini, l’autunno micologico si dispiega su un arco temporale più ampio, talvolta fino a metà novembre, grazie a quote inferiori e a un clima generalmente meno rigido. Tuttavia, proprio per questa maggiore “elasticità”, l’interpretazione delle fasi è più difficile. Serve esperienza: le faggete (tra i 900 e i 1500 m), i castagneti da frutto ben condotti e le querce del piano collinare superiore sono i motori della biodiversità fungina appenninica. Le condizioni ideali si manifestano dopo piogge settentrionali di inizio ottobre, seguite da giornate serene con ventilazione debole e temperature massime tra i 15 e i 18 °C. I suoli argilloso-silicei, ben strutturati, ricchi di microfauna e con lettiera umificata, favoriscono in particolare la crescita di Boletus pinophilus, Boletus edulis, Russula cyanoxantha, Lactarius spp., e, fra i funghi saprotrofi, le ricercate Clitocybe geotropa, Armillaria mellea e Lepista nuda. Nell’Appennino, più che altrove, è fondamentale osservare la vitalità delle piante ospiti: alberi con chioma ancora attiva (non disseccata), presenza di radici fini visibili, assenza di stress idrico. Un castagno che ha perso prematuramente le foglie, o un faggio "stancato" da un'estate torrida, difficilmente potrà sostenere fruttificazioni intense: il micelio simbionte può essere ancora vitale, ma -probabilmente- non in grado di ricevere abbastanza carbonio per produrre i suoi sporofori. Va ricordato che Boletus edulis e B. pinophilus possono produrre anche su radure prossime al bosco, in presenza di erbe perenni e terreno ricco, soprattutto dopo passaggio di temporali localizzati. In queste zone di confine tra prato e bosco (ecotoni), i segnali premonitori includono: erba piegata dall’umidità, lombrichi attivi, prime apparizioni di funghi saprotrofi; in genere sono anche le ultime, esposte e soleggiate zone dell'appennino ove incontrare qualche sorpresa.

Fragilità collinare
Nel paesaggio collinare italiano, così vario da un crinale all’altro, l’autunno micologico si manifesta con modalità complesse e spesso poco prevedibili. Dalle colline sabbiose del Monferrato alle crete senesi, dai terrazzi morenici prealpini ai pendii del Sannio, ciò che conta non è soltanto la quota, ma soprattutto la memoria idrica del suolo e la struttura ecologica della vegetazione. In questi territori, più ancora che altrove, la crescita dei funghi risponde a sottili equilibri tra ombreggiatura e ventilazione, tra tessitura del terreno e composizione della lettiera. Spesso sono le zone periferiche del bosco, quelle soggette a luce filtrata, al margine tra radura e copertura, a offrire le fruttificazioni più precoci e abbondanti. È in questi spazi intermedi che l’umidità si conserva più a lungo, grazie alla presenza di cespugli, erbe perenni e una lettiera mista, ricca di resti vegetali in parziale decomposizione. Macrolepiota procera, Agaricus spp., Lepiota, Clitocybe, Marasmius e altre specie saprotrofe sono tra le prime ad apparire, seguite, in stagioni ben irrigate e senza eccessivi ristagni idrici, da simbionti importanti come Boletus aestivalis, Russula virescens, Suillus granulatus (nelle pinete) e Amanita caesarea. Chi frequenta questi ambienti sa che ogni dettaglio può rivelare qualcosa: una chioma ancora verde e tesa nei rami bassi degli alberi indica che la pianta non ha ancora interrotto la fotosintesi, e quindi le radici mantengono una relazione attiva con il micelio. Al contrario, un fogliame già secco e accartocciato, soprattutto se apparso troppo precocemente, può essere il segno di uno stress idrico estivo non ancora superato; è un segnale importante specie nei boschi di querce. In questi habitat, tuttavia, il rischio di falsi segnali è elevato. Un’erba rigogliosa e verdissima può essere frutto di una pioggia superficiale, incapace di bagnare davvero i primi 10-15 centimetri di suolo dove vive il micelio.
Le colline, insomma, non concedono nulla per caso. Sono ambienti esigenti, che chiedono osservazione paziente e una lettura puntuale di ciò che accade sopra e sotto il suolo. Ma quando il bilancio idrico dell’estate è stato positivo o settembre ha portato piogge ben distribuite, possono regalare buttate abbondanti, spesso sorprendenti, capaci di prolungarsi fino a novembre, specie nei boschi di roverella, cerro o leccio, dove la vegetazione trattiene più a lungo l’attività metabolica.

L’autunno sul mare
Se le Alpi vivono l’autunno come una corsa contro il tempo e l’Appennino come una lenta discesa verso l’inverno, le zone costiere e subcostiere del nostro Paese seguono una logica diversa: più fluida, dilatata, talvolta sfuggente. Qui il calendario non basta. L’autunno micologico non si presenta con puntualità, ma arriva quando una serie di fattori — precipitazioni, umidità atmosferica, temperature, ventilazione — si allineano come in una lenta danza. E quando questo accade, la risposta può essere spettacolare, soprattutto in quegli ambienti ancora miracolosamente integri: le pinete marittime, le sugherete, i lecceti termofili, le macchie mediterranee evolute. A differenza dei boschi montani o collinari, in cui il micelio beneficia di suoli profondi, humus ricco e lettiera abbondante, i suoli litoranei e sublitoranei sono spesso poveri, sabbiosi, drenanti. La vegetazione qui è adattata alla scarsità d’acqua e alle estati torride: il leccio (Quercus ilex) mantiene la foglia tutto l’anno, la sughera (Quercus suber) resiste al calore con la sua corteccia spessa, il lentisco, il mirto, l’erica, il corbezzolo si alternano in un mosaico di arbusti xerofili e sempreverdi. Eppure, in questo scenario che sembra ostile, si sviluppa una delle più eleganti stagioni fungine d’Italia, fatta di specie termofile, preziose, capaci di sorprendere anche a fine novembre, o in certe annate, addirittura a dicembre. In genere, dopo un’estate lunga e spesso priva di piogge significative, i primi rovesci autunnali, se ben dosati, hanno un effetto rigenerante sul paesaggio mediterraneo. Non basta, tuttavia, un solo episodio perturbato: serve una reidratazione graduale del profilo del suolo, da ripetersi nel corso di una o due settimane, con temperature ancora miti e notti umide, meglio se accompagnate da brezze leggere di scirocco. Quando il terreno comincia a trattenere l’umidità anche sotto la superficie — tra 5 e 15 cm — e le temperature si stabilizzano tra i 16 e i 22 gradi, le micorrize riprendono l’attività metabolica. Il porcino nero, Boletus aereus e l'ovolo buono, Amanita caesarea sono i veri sovrani di questi habitat. Sono frequenti, ma soprattutto sono esigenti; quando compaiono, lo fanno a volte con una grazia inconfondibile, sotto corone di lecci o sughere, in luoghi dove la luce filtra a lame e il muschio si mescola alla sabbia; a volte luoghi quasi "impenetrabili" e fitti, come ad esempio nelle macchie forestali della Maremma; per entrambe le specie, le annate migliori sono quelle con un settembre instabile e un ottobre mite, ma a volte si mostrano anche dopo le piogge di Ognissanti, quando tutto sembrerebbe ormai spento. Bene ricordare che nel complesso dei boschi mediterranei non basta cercare “dove ci sono i funghi”. Bisogna saper leggere la vegetazione.

Laddove Erica scoparia si presenta con fusti legnosi attivi, rami verdi, foglioline turgide, significa che l’umidità è stata sufficiente e che il sottobosco è ancora vitale. Dove i lecci, Quercus ilex ha mantenuto la chioma lucida, e il terreno sotto gli alberi è punteggiato di insetti, rimasugli di ghiande, lettiera poco compatta, lì la vita fungina è più probabile. Le zone depresse, con accumulo di sabbia, o quelle troppo battute dal vento, sono invece da evitare: si disseccano rapidamente e non consentono un’adeguata formazione degli sporofori. Un occhio esperto coglie anche altri indizi: il profumo del sottobosco, che cambia dopo le piogge; la presenza di collemboli e altri artropodi; il tipo di muschi che crescono nelle radure; le fioriture tardive di piante eliofile. Tutti segnali che, nel loro insieme, raccontano se il fungo sta per arrivare o se, invece, il tempo è già passato. Proprio in questi ambienti, più che altrove, è opportuno evitare la retorica del fungo “pronto a nascere appena piove”. Il micelio mediterraneo è sottoposto a stress idrici e termici notevoli, e non tutti gli apparati sono attivi ogni anno. Anzi, in annate molto calde, o quando la primavera è stata arida, può accadere che intere porzioni di bosco restino sterili, anche in presenza di piogge abbondanti d’autunno. È il sintomo di un disequilibrio profondo, legato alla fisiologia delle piante simbionti, alla qualità del suolo, alla sua capacità di trattenere nutrienti. Chi conosce questi luoghi sa che ci sono boschi che “parlano” e altri che tacciono: l’arte del cercatore sta nel saperli distinguere, senza forzare nulla. Le zone mediterranee, infine, a differenza dei versanti alpini o collinari, dove il gelo chiude rapidamente ogni finestra utile, nelle aree costiere più protette, dal basso Lazio alla Maremma, dalle Murge alla costa tirrenica calabrese, dalle colline livornesi al Golfo di Policastro, le fruttificazioni possono continuare fino alla fine dell’anno. Basta che le condizioni restino stabili: assenza di vento forte, notti non troppo fredde, umidità elevata. In questi contesti, si possono osservare fino a dicembre esemplari freschi di Boletus aereus, Leccinellum lepidum, Lactarius deliciosus, Tricholoma terreum, Lepista nuda, Russula delica e, altre, numerose specie da studio di interesse micologico.
Ogni bosco d’autunno racconta una storia diversa. Talvolta lo fa con ricchezza, altre volte con silenzi improvvisi. Ma la fruttificazione dei funghi non è mai un evento casuale: è la manifestazione visibile di un equilibrio profondo, costruito tra suolo, pianta e tempo. Comprenderlo significa imparare ad aspettare, a osservare, a leggere l'invisibile. Perché la vera ricerca micologica non comincia nel momento della raccolta, ma nell’istante in cui si impara a riconoscere i segnali della natura. E in autunno, quei segnali parlano a voce bassa, ma con chiarezza assoluta.