Pànace di Mantegazza, la pianta gigante che "ustiona" la pelle

A prima vista potrebbe sembrare una curiosità botanica, un grande ombrello di fiori bianchi che svetta tra l’erba alta. In realtà, la Panace di Mantegazza è una delle piante -alloctone, invasive- più silenziosamente pericolose che si possano incontrare durante le nostre passeggiate.
Basta sfiorarla per ritrovarsi, dopo poche ore di sole, con ustioni dolorose, vesciche e cicatrici che possono durare anni. Non è un’esagerazione: la linfa di questa specie contiene sostanze fototossiche che agiscono come un reagente chimico a contatto con la pelle umana. Oggi la sua presenza si sta consolidando in sempre più aree alpine e prealpine, favorita dall’abbandono dei prati, dall’umidità e dalle mutate condizioni climatiche. Imparare a riconoscerla e a tenerla a distanza non è più una semplice precauzione per appassionati di botanica: è una necessità concreta per chiunque frequenti sentieri e radure di montagna. La Panace di Mantegazza (Heracleum mantegazzianum) non è una pianta autoctona delle Alpi. È originaria del Caucaso centrale, dove cresce in valli fresche e fertili, lungo i fiumi e nei pascoli montani. Dalla metà dell’Ottocento venne introdotta in Europa come pianta ornamentale per abbellire parchi, giardini e orti botanici. Il suo aspetto monumentale la rese una curiosità apprezzata da collezionisti e botanici. Ben presto, però, la situazione sfuggì di mano. La sua formidabile capacità riproduttiva – una sola pianta può produrre decine di migliaia di semi che restano vitali per anni – e la facilità di adattamento ai terreni freschi e umidi, hanno permesso a questa specie di colonizzare rapidamente rive, scarpate, radure. Oggi è presente in buona parte dell’Europa centro-settentrionale e si sta consolidando anche in diverse vallate alpine italiane, dal Piemonte al Friuli.

Perché è pericolosa?
Il rischio non è solo botanico o ecologico. La Panace di Mantegazza è una delle poche piante europee in grado di provocare ustioni chimiche serie, perché la sua linfa contiene elevate concentrazioni di furanocumarine. Queste sostanze appartengono a un gruppo di composti organici che si legano al DNA delle cellule epiteliali. Quando la pelle contaminata viene esposta alla luce solare, in particolare ai raggi ultravioletti (UV-A), si innesca una reazione fototossica chiamata fitofotodermatite o "dermatite da prato". Le conseguenze possono essere pesanti e si manifestano con un arrossamento diffuso e una sensazione di bruciore intenso che compare entro 24-48 ore dal contatto. In breve tempo si formano vesciche dolorose, del tutto simili a ustioni di secondo grado, accompagnate da gonfiore marcato e da un dolore persistente. Nei casi più gravi, le lesioni evolvono in ulcerazioni e possono lasciare cicatrici permanenti. La pelle colpita, inoltre, sviluppa un’ipersensibilità alla luce che può durare anche per diversi mesi, rendendo necessarie ulteriori precauzioni per evitare danni aggiuntivi. Se la linfa raggiunge gli occhi, il rischio di infiammazioni oculari e di danni permanenti alla vista diventa concreto. Non esiste un antidoto immediato: l’unico modo efficace per evitare queste conseguenze è non toccare mai la pianta e adottare ogni precauzione per proteggersi dal contatto accidentale.

Come è fatta
Il nome del genere, Heracleum, deriva dal mito di Eracle, eroe dell’antica Grecia, evocando l’immagine di un vegetale dalla forza e dalla mole straordinarie. L’epiteto mantegazzianum rende omaggio a Paolo Mantegazza (1831-1910), figura di spicco della scienza italiana ottocentesca. Mantegazza fu medico, fisiologo, antropologo e divulgatore, noto per i suoi studi pionieristici sulla fisiologia, la medicina sociale e le relazioni tra ambiente e salute. Fu anche un appassionato viaggiatore e osservatore della natura, e proprio il suo impegno nel promuovere la cultura scientifica contribuì a far sì che il suo nome venisse legato a questa pianta monumentale.
Dal punto di vista botanico, la Panace di Mantegazza è una ombrellifera imponente e inconfondibile per una serie di caratteristiche morfologiche che raramente si riscontrano combinate in altre specie spontanee europee. Il fusto, di consistenza erbacea ma straordinariamente robusto, è cavo all’interno e raggiunge nei soggetti maturi un diametro compreso fra 5 e 10 centimetri, talvolta anche maggiore alla base. La superficie esterna è percorsa da vistose striature longitudinali di colore violaceo o porpora scuro e ricoperta da una fitta peluria ispida, più densa nelle parti basali e all’inserzione delle foglie. Questa pubescenza è costituita da setole biancastre rigide che svolgono una funzione protettiva, oltre a trattenere la rugiada e l’umidità superficiale.

Le foglie, che contribuiscono in modo determinante alla silhouette colossale della pianta, sono di tipo composto e profondamente incise in tre-sei lobi principali, ciascuno ulteriormente suddiviso in segmenti dentati e acuminati. La pagina superiore è di un verde brillante e leggermente lucida, mentre quella inferiore è più opaca e talora cosparsa di peli minuti. La consistenza è coriacea e turgida, con un picciolo scanalato e cavo che può superare, in esemplari adulti, il metro di lunghezza. Il margine è irregolarmente dentato, con seni profondi che accentuano l’aspetto lacerato delle lamine.

L’infiorescenza terminale è costituita da una grande ombrella composta, che può misurare dai quaranta agli ottanta centimetri di diametro, formata da un numero di raggi primari variabile tra cinquanta e centoventi. Ogni raggio sostiene ulteriori ombrellette secondarie, ciascuna con decine di minuscoli fiori bianchi o crema disposti in fitti corimbi. L’intera struttura si sviluppa ben al di sopra dell’apparato fogliare, conferendo alla pianta l’aspetto di un enorme candelabro vegetale. I frutti, chiamati diacheni, sono appiattiti, di colore bruno chiaro con costolature più scure, lunghi circa un centimetro e muniti di ali marginali. La maturazione dei semi avviene tra fine estate e inizio autunno, quando la pianta si dissecca completamente e rilascia migliaia di propaguli che si disperdono facilmente grazie al vento e al ruscellamento superficiale.






Alcuni dettagli delle dimensioni, del fusto, delle foglie e delle infiorescenze di Heracleum mantegazzianum.
Le specie simili
La combinazione di dimensioni monumentali, foglie che possono superare i tre metri di lunghezza e un’infiorescenza ramificata di eccezionale ampiezza, differenzia la Panace di Mantegazza da altre consimili ombrellifere spontanee che crescono nel nostro territorio. Il paragone più immediato è con l’Heracleum sphondylium, noto anche come panace comune, diffuso nei prati umidi e ai margini dei boschi di tutta Italia. Si tratta di una pianta più contenuta, che raramente oltrepassa i due metri d’altezza; ha un fusto più esile, spesso ricoperto di una peluria densa e morbida, e infiorescenze sensibilmente più piccole, con ombrelle che si aggirano sui venti-trenta centimetri di diametro. Un altro carattere utile per differenziarle è la forma della foglia, incisa e lobata, ma con un contorno più triangolare e segmenti meno sviluppati in larghezza, diverso dall’aspetto più massiccio e irregolarmente frastagliato delle foglie della Panace di Mantegazza. Nelle regioni alpine e prealpine italiane si segnalano inoltre esemplari di Heracleum persicum, una specie originaria della Persia occasionalmente coltivata come ornamentale e ancora più raramente sfuggita alla coltivazione. Le dimensioni possono essere intermedie fra Heracleum sphondylium e H. mantegazzianum, ma la capacità invasiva e la tossicità sono comparabili a quelle della Panace di Mantegazza, anche se finora non si conoscono popolamenti spontanei estesi.

Un’altra specie che può generare confusione è l’Angelica sylvestris, presente nei prati freschi, lungo i ruscelli e nelle radure montane. Anche in questo caso, l’altezza massima difficilmente supera i due metri e mezzo, mentre il fusto si distingue per la superficie più liscia, di un verde chiaro uniforme, priva delle caratteristiche striature porpora della Panace di Mantegazza. Le ombrelle di Angelica appaiono più globose o leggermente convesse, piuttosto che piatte e larghe come quelle della Panace. I fiori sono di un bianco spesso tendente al verdastro e, osservando da vicino, si nota una disposizione più compatta e meno espansa dei raggi principali. Inoltre, le foglie dell'angelica hanno segmenti più sottili e meno profondamente incisi, con un aspetto complessivo più leggero e meno coriaceo rispetto alle lamine massicce di Heracleum mantegazzianum.

E se incontro la Panace nel bosco?
Se durante un’escursione si dovesse incrociare una pianta tanto maestosa, non bisognerebbe lasciarsi trarre in inganno dall’aspetto elegante delle grandi ombrelle bianche o dal portamento monumentale. La Panace di Mantegazza non va mai toccata né manipolata, poiché il rischio di lesioni è concreto. Il pericolo si manifesta quando la linfa entra in contatto con la pelle: le sostanze fototossiche, una volta assorbite, innescano sotto l’esposizione solare un processo infiammatorio che può determinare arrossamenti marcati, vesciche dolorose e cicatrici persistenti. La contaminazione non avviene solo per contatto diretto: è sufficiente sfiorare foglie umide di rugiada, appoggiare un braccio scoperto sul fusto o usare strumenti impregnati di linfa per provocare la reazione cutanea. In presenza di esemplari lungo sentieri o zone frequentate, non si dovrebbe mai tentare una rimozione autonoma. La bonifica richiede attrezzature e indumenti protettivi completi: tute impermeabili, guanti resistenti agli agenti chimici, visiere e occhiali a mascherina. La procedura corretta prevede di segnalare tempestivamente la localizzazione ai Carabinieri Forestali, al Servizio Fitosanitario Regionale o agli enti di gestione dei parchi, allegando se possibile fotografie chiare per l’identificazione. Nel caso si sospetti di aver toccato accidentalmente il fusto o le foglie, è consigliabile lavare subito e con abbondanza la cute interessata con acqua e sapone neutro, evitando sfregamenti e asciugando la pelle con delicatezza. La zona dovrebbe essere mantenuta al riparo dalla luce per almeno quarantotto ore, poiché il danno si attiva soltanto con l’esposizione ai raggi ultravioletti. Se nelle ore o nei giorni seguenti compaiono arrossamenti, gonfiore, dolore intenso o vesciche, si raccomanda di consultare tempestivamente un medico.
Un’invasione favorita dal clima
In Italia, la Panace di Mantegazza ha trovato un terreno particolarmente favorevole alla diffusione lungo tutto l’arco alpino e prealpino, dalle vallate del Piemonte fino al Friuli Venezia Giulia. Questa espansione si deve alla convergenza di più fattori ambientali: inverni freddi che non compromettono la vitalità dei semi, estati umide e piovose che garantiscono l’umidità necessaria alla germinazione, e la presenza diffusa di aree disturbate dall’uomo, come scarpate stradali, argini di torrenti e terreni abbandonati. Il clima temperato montano, caratterizzato da precipitazioni regolari e suoli profondi, ha creato un habitat ideale per l’insediamento e la crescita vigorosa di popolamenti monodominanti, capaci di soppiantare la vegetazione locale. Gli scenari climatici futuri indicano che, nei prossimi decenni, il progressivo innalzamento delle temperature potrebbe modificare la distribuzione altitudinale della specie. È probabile che la Panace risalga verso quote superiori, trovando nuovi ambienti idonei dove la competizione con altre piante erbacee sarà ancora più limitata, aumentando così il rischio di una colonizzazione su scala più estesa.
Bibliografia e sitografia essenziale
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Flora d’Italia. Edizioni Edagricole – New Business Media, 2017–2019.
Acta Plantarum
Forum Acta Plantarum. Schede, immagini e discussioni su Heracleum mantegazzianum e specie affini; https://www.actaplantarum.org