Funghi: ne uccide più il bosco che l’Amanita falloide

Funghi: ne uccide più il bosco che l’Amanita falloide
Boletus edulis in pecceta alpina, ambiente elettivo della stagione attuale.
Un fungo vale la vita?
Nel pieno del grande momentum di crescita micologica che interessa, in questi giorni, le vallate alpine del nord-est della Penisola, è opportuno abbandonare, anche solo per qualche istante, l’euforia della ricerca, e dedicare spazio a una riflessione più silenziosa, più consapevole, più responsabile.

Perché se da un lato è vero che le stagioni micologiche più generose offrono doni che rinnovano, in ciascuno di noi, la meraviglia per il mondo naturale e il senso profondo del camminare nel bosco, dall’altro è altrettanto innegabile che, proprio nei momenti di massima abbondanza, si moltiplicano anche le leggerezze, le imprudenze, gli azzardi: gesti spesso dettati da entusiasmo mal calibrato, ma che in certi casi si trasformano in tragedie. E accade, purtroppo con frequenza crescente, che le cronache locali riportino notizie di persone scomparse nei boschi, di cadute in dirupi, di escursionisti colti da malore in zone impervie, di recuperi notturni da parte del Soccorso Alpino — e, nei casi più drammatici, di vite spezzate da una scelta incauta, da un sentiero imboccato senza criterio, da un bosco affrontato senza rispetto. Il dato, per quanto scomodo, è sotto gli occhi di tutti: ogni anno, il bosco uccide molto, molto più della velenosa mortale Amanita phalloides. E non perché il bosco sia ostile, o perché vi sia un rischio ineliminabile connesso alla frequentazione dell’ambiente naturale, ma perché troppo spesso ci si inoltra nella foresta senza la necessaria consapevolezza, senza la preparazione tecnica, senza il rispetto delle proprie possibilità fisiche e cognitive, senza quell’atteggiamento di umiltà che dovrebbe sempre accompagnare chi entra in un ecosistema che non gli appartiene.

La deriva della spettacolarizzazione

Viviamo in un tempo in cui la condivisione di didattica, immagini e video — gesto in sé innocuo e, anzi, potenzialmente utile se fondato su basi educative si è trasformata, nella pratica quotidiana, in una continua e talvolta aggressiva esibizione della natura come trofeo. Non più natura vissuta, meditata, custodita, ma “natura mostrata”, e spesso ridotta a “natura morta”, quando il rispetto per l’organismo fungino cede il passo all’ossessione per la composizione visiva, per la quantità, per l’impatto scenico. Intendiamoci: non vi è nulla di male nella condivisione digitale, quando essa nasce da autentico amore per il bosco, dalla volontà di educare, di trasmettere valori positivi, di ispirare con delicatezza e misura. Al contrario, chi come lo scrivente ha scelto di usare i social media come strumento di divulgazione, sa quanto possa essere efficace, oggi, un’immagine ben curata, un testo onesto, un messaggio limpido e rispettoso, di accrescimento culturale e sociale. Ma un conto è restituire il senso di un incontro con la natura, altro è banalizzarlo, ridurlo a pura prestazione. Ecco allora che l’inseguimento compulsivo del “bottino” — spesso esibito in cesti stracolmi, file di esemplari allineati come trofei, video che inneggiano alla quantità — finisce per generare comportamenti emulativi, impulsivi, privi di ogni misura, con conseguenze che, in alcuni casi, si pagano a caro prezzo.

Non serve mostrarli nei cesti: basta vederli così, dove sono nati. Un fresco e nascosto Boletus edulis, immortalato in una pecceta alpina, vale più di mille raccolti ostentati.

Boschi sconosciuti, sentieri incauti, errori fatali

Accade così che, sull’onda emotiva di un reel virale, di un sms ricevuto o di un’immagine suggestiva, si decidano partenze repentine verso località mai frequentate prima, senza uno studio preventivo dell’orografia del terreno, senza verificare le previsioni meteo (sull'app 3Bmeteo, ovviamente), senza conoscenza delle condizioni dei sentieri, senza neppure informarsi se l’area rientri in una riserva naturale, in una proprietà privata, o in una zona soggetta a vincoli. Spesso, questi luoghi vengono affrontati in solitaria, senza cartina, senza GPS, senza aver avvisato alcun familiare. Il desiderio di emulazione — talvolta travestito da passione — diventa tracotanza, e la convinzione, assai diffusa, che “tanto lo fanno tutti”, si trasforma in un veleno ben più subdolo dell’Amanita: l’illusione dell’invulnerabilità. Ma il bosco non è una scenografia. È un sistema vivente, profondo, talora aspro, capace di bellezza e di pericolo. In quota, basta un passo falso, una radice umida, una distrazione, perché la passeggiata si trasformi in incidente. E basta poco, nella fitta selva, perché si perda l’orientamento, si resti isolati senza segnale, o si finisca fuori traccia in zone dove il soccorso può impiegare ore ad arrivare. È questa, oggi, la vera insidia: non la raccolta e il consumo di un fungo velenoso mortale, ma l’imprudenza nell’approccio, la leggerezza nella pianificazione, la superficialità nell’agire, la rinuncia a quella prudenza silenziosa che dovrebbe sempre accompagnare chi entra nel bosco.

Non sono burocrazia, ma tutela

Ogni regione italiana ha predisposto un regolamento preciso in materia di raccolta dei funghi, nato non da un eccesso di zelo normativo, ma da una necessità reale: preservare l’integrità ecologica dei boschi e, al tempo stesso, tutelare chi quei boschi li frequenta. Gli orari consentiti, il limite giornaliero di raccolta, l’obbligo del permesso: sono regole minime, sensate, che andrebbero accolte non come vincoli, ma come strumenti di equilibrio tra uomo e ambiente. Eppure, oltre alle norme scritte, ne esistono altre – più sottili, ma non meno vincolanti – che appartengono alla sfera dell’etica personale e della prudenza silenziosa: il saper riconoscere i propri limiti, rinunciare a un passaggio rischioso, equipaggiarsi bene senza sottovalutare nulla, non isolarsi in territori remoti, non inseguire una fungaia affacciata sul vuoto, non sottovalutare una discesa ripida o un cielo che cambia. Sapere quando è il momento di fermarsi e di rientrare. Perchè se il bosco è davvero ciò che diciamo di amare, allora va rispettato anche e -soprattutto- rinunciando. Essere in grado di rinunciare non è perdere, ma è sapere che si può tornare.

Uno splendido scatto di Hypholoma lateritium, falso chiodino; specie tossica.

La meteorologia: il fungaiolo saggio la guarda ogni giorno

C’è un altro aspetto fondamentale della sicurezza in ambiente naturale che spesso viene trascurato: il tempo atmosferico. Eppure, chi frequenta davvero il bosco lo sa: l’instabilità meteorologica è uno dei principali fattori di rischio, soprattutto in ambiente montano o collinare. La montagna cambia volto in pochi minuti. Un temporale pomeridiano può trasformare un sentiero agibile in un solco d’acqua scivolosa. La nebbia può cancellare ogni riferimento visivo. Il vento può provocare la caduta di rami o alberi. L’instabilità termica può indurre crampi, ipotermia o colpi di calore. Ecco perché ogni escursione a funghi dovrebbe iniziare non col cestino, ma con una consultazione attenta delle previsioni meteo; e portali affidabili come 3B Meteo, aggiornati e specifici per ogni località, permettono di valutare l’evoluzione oraria delle condizioni atmosferiche; consultare il radar previsionale e attualizzato, verificare la possibilità di nebbia o precipitazioni improvvise. Un’escursione sicura è anche una questione di scelta del momento. E questo momento va individuato con competenza, non a caso.

Il bosco quale "maestro"

La raccolta dei funghi dovrebbe pertanto essere un gesto di armonia, non di competizione. Anche quando ci si trova in piena buttata e periodi favorevoli. Una forma di ascolto, non di conquista. Nel bosco si entra come ospiti, non come predatori. Si cammina in silenzio, si osserva, si impara. Ogni uscita insegna qualcosa: un versante più fertile, una specie nuova, una crescita inattesa dopo una pioggia. Ma tutto questo non si ottiene con l’arroganza, né con la fretta. Chi ha davvero una cultura micologica sa che il vero tesoro non è nel cesto, ma nell’esperienza. I funghi sono solo una manifestazione, visibile e effimera, di un mondo sotterraneo complesso, antico, invisibile ai più. Un mondo che connette alberi, animali, suolo e aria. Distrarlo per avidità, o mettersi in pericolo per raggiungerlo, è un tradimento verso ciò che diciamo di amare.

Torniamo, infine, , alla domanda iniziale: un fungo vale la vita?
No. Mai. Nessun Boletus edulis, nessuna Amanita caesarea, nessuna Russula rara, nessuna “fungaia segreta” vale il prezzo dell’incolumità. Vale, semmai, la pazienza. Vale l’attesa, l’allenamento, la conoscenza. Vale il sapere dire "oggi non è il giorno giusto". Vale il sapere tornare indietro.

In un’epoca in cui tutto è spettacolarizzato, è doveroso ricordare a chi si avvicina oggi alla raccolta dei funghi – e anche a chi la pratica da anni – che ciò che ci lega davvero al bosco non è il successo, ma il rispetto.


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